Storia del Comune


PREISTORIA DEL TERRITORIO DI CAMPOREALE-
dal libro “ Camporeale- Origini, usi, costumi, mentalità, proverbi,canti popolari”
del Sac. Luigi Accardo.
Camporeale è un piccolo centro agricolo, di quattromila abitanti, della provincia di Palermo, posto nella parte orientale del Val di Mazara, a confine delle province di Agrigento, Trapani e Palermo. Distante 45 Km. da Palermo, si trova a 440 m. sul livello del mare, e alle falde delle colline: Cozzo di Cipolla, Cresta di S. Cosimo e Spezzapignatte (m. 610), che sovrastano l’amena pianura di Mandrianova e lo difendono dai venti nordici. Il panorama che si presenta al visitatore è meraviglioso: colline, monti, pianure, da cui si scorgono i paesi di Corleone, Campofiorito, Roccamena, Bisacquino, Contessa Entellina, Gibellina, Salemi. All’orizzonte si scorge, da Corleone a Salemi, una meravigliosa catena di montagne comprese tra le province di Palermo, Agrigento, Trapani. Protette da questi monti che circondano da tutte le parti il territorio di Camporeale, si estendono ridenti e verdeggianti vallate, costellate da poggi, promontori, colline: Galiello, Rocca di Maranfusa a forma di un leone accovacciato, Cozzo Renelli, Montagnola, Serra Parrino, Cozzo di Curbici a sinistra del paese. Ma il monte più famoso, vicino a Camporeale, presso S. Giuseppe Jato, è monte Jato. Qui sorgeva una città costruita verso il VII sec. a.C., di nome Jato (che ha dato il nome a S. Giuseppe Jato) contemporanea di Makella, l’antica città da cui derivò Macellaro e poi Camporeale. Anche oggi gli abitanti di Camporeale sono chiamati dagli anziani “Maciddaroti”. Dov’era Makella? Come scomparve? Che cosa resta d’essa? Tutta la Sicilia è piena di reperti archeologici: monumenti, templi, anfiteatri, teatri, ruderi di città, necropoli: segni di civiltà antichissime, opera di colonizzatori che per millenni sono stati fattori di progresso, cultura, benessere economico e anche dominio dell’Isola. Grazie allo studio archeologico condotto , sul territorio di Camporeale, dalla “The Monreale Survey” sotto la direzione di Jeremy Johns, abbiamo appreso le seguenti notizie molto interessanti sulle origini degli abitanti della nostra zona. Probabilmente da oltre 15.000 anni l’uomo è vissuto sulle colline e nelle vallate attorno all’odierna Camporeale. I primissimi abitanti non dimoravano in case ma nelle grotte o all’aperto; non indossavano vestiti ma pelli grezze; non conoscevano il metallo né  la ceramica e ricavavano i loro utensili dal legno, dalle ossa degli animali e dalla pietra. Erano cacciatori e raccoglitori, cioè ignoravano l’agricoltura e si procuravano il cibo con la caccia e la raccolta di piante selvatiche. L’ambiente stesso era completamente diverso da quello odierno. Non esistevano coltivazioni, allevamenti di animali. Le colline erano coperte di foreste vergini e le vallate erano invase dalle paludi. Un abisso profondo e buio ci separa dai primi abitanti di queste zone. Aiutandoci allora con l’archeologia, che è lo studio scientifico della cultura materiale del passato, cioè lo studio delle cose, dei monumenti e delle testimonianze materiali dell’uomo antico, e inoltre, con l’ausilio della storia, cercheremo di attraversare l’abisso che ci separa dai primi abitanti di questa zona, per conoscere un po’ le origini di questo paese.
 
Età paleolitica
Circa 100.000 anni fa, arrivarono i primi uomini in Sicilia e si fermarono soprattutto nella costa. Poi cominciarono ad addentrarsi nell’interno. I primi abitanti furono i Paleolitici, a cui seguirono i Neolitici, gli uomini del bronzo, gli Elimi (e, in età storica, i Greci, i Romani, i Punici, gli Arabi, i Normanni,  gli  Spagnoli, i Francesi). Come si è detto, nella nostra zona i primi uomini dell’era paleolitica furono presenti circa 15.000 anni fa. Sulle falde del monte Raitano si è trovata una grotta con i resti di questo insediamento umano. Usavano le pietre per costruire i loro utensili.
 
Età neolitica
8.500 anni fa, gli uomini cominciarono ad allevare gli animali, emigrarono verso l’interno, estirpando gli alberi.  Sono stati trovati resti di asce e di pietre, nonché segni di commercio di prodotti agricoli e di ceramica colorata in diversi stili, che denotano l’influsso di altre comunità della Sicilia Orientale.
 
Età del bronzo
5.000 anni fa, si cominciò ad usare il rame invece delle pietre. Sul Cozzo Gelso, presso il cimitero, sono stati trovati diversi segni di capanne del più antico insediamento preistorico, risalenti a 4.000 anni a.C. e costruite su basi di pietra. Gli abitanti di Cozzo Gelso dimoravano in capanne di legno su base di pietra intonacate con l’argilla cruda e coperte con la ramaglia. Usavano focolari di argilla  cotta per la cucina e il riscaldamento.
Sono emersi, dagli scavi, frammenti di grosse giare per la conservazione di cereali, frammenti di macine per macinare il frumento, e ceramiche di diversi stili, provenienti da altre parti dell’isola.
Dopo l’età del bronzo, verso il 1000 a.C., i primi abitanti dell’Isola furono i Sicani, venuti dalla Spagna, e fu per questo che la Sicilia, chiamata prima Trinacria, prese il nome di Sicania.  Espugnata la città di Troia, detta Ilio, alcuni Troiani si stabilirono nella parte occidentale dell’Isola  e furono chiamati Elimi.
Vennero poi i Siculi dalla penisola, detta Italia proprio da Italo, re dei Siculi. Questi sconfissero i Sicani e cambiarono il nome dell’isola da Sicania in Sicilia, circa 300anni prima dei Greci.
Dopo vennero i Fenici, che fondarono i Fenici, che fondarono Palermo, Solunto, Mozia; dopo i fenici, ci saranno i Greci. Con gli Elimi (850 a.C.) si inizia la lavorazione del ferro e si dà vita ad una nuova cultura. Abbandonati i villaggi dell’età del bronzo, si costruirono città sulle alture: Erice, Segesta, Monte Jato, Monte Bonifato, Monte Maranfusa, Monte Pietroso ed Entella.
Quest’ultima, secondo il mito, fu fondata da Entello, compagno di Enea, dopo la fuga da Troia. Gli abitanti erano famosi per la loro altezza ( quella media degli uomini era di m. 1,69, quella delle donne era di m. 1,58).
Gli Elimi avevano l’agricoltura come fonte principale dell’economia, mentre l’organizzazione sociale delle città era ordinata secondo questa gerarchia: sacerdoti, guerrieri, mercanti, artigiani, coltivatori. Con i Greci si ebbe l’ellenizzazione forzata. Alla fine del IV secolo a.C., fu distrutta la maggior parte delle città.
Nel periodo ellenistico-romano gli abitanti tornarono ad abitare nelle campagne in piccoli villagi e fattorie.
 
Età romana
Nel 254 a.C., Roma conquistò la Sicilia, che dopo un periodo di ribellione fu tutta sottomessa. I Siciliani, da Siracusa a Monte Jato, furono sottoposti dalla burocrazia a pagare tasse all’Impero romano.
Dal 200 a.C. al 200 d.C., la città più vicina all’attuale Camporeale era Jetas sul monte Jato, sopra l’attuale S. Giuseppe Jato. Jetas, costruita forse verso il VII sec. a.C.,durante la guerra punica si schierò con Roma, godendo così di grandi benefici e prosperità. Restano ancora ruderi di un grandioso teatro di tremila posti. La gente viveva nelle masserie dove coltivava la terra. A Valdibella, presso Camporeale, si sviluppò una masseria fino a diventare un paesino.
 
Età araba
Nell’anno 827 d.C. gli Arabi conquistarono in maniera pacifica la Sicilia. Tra il 900 e il 1100, i Normanni venuti dal Nord Europa, si unirono agli Arabi in una tranquilla convivenza.
Moltissimi furono i casali e i villaggi arabi. Jetas, chiamata dagli Arabi Giato, che arrivò ad avere 13.000 famiglie. Il Casale di Curbici “Qurubnis as-sufli” in arabo e “Corubinis inferioris” in latino. Secondo alcuni studiosi, si presume che fosse abitato da trenta capifamiglia. C’era il Kaid (capo villaggio); il murabiti (l’uomo santo); il quad’ì (il giudice); l’hay (il pellegrino della Mecca). Pagavano allo Stato 2.400 tarì d’oro, oltre grano, vino e prodotti della terra. Secondo le ricerche archeologiche di Franco D’Angelo in “Sopravvivenze classiche nell’ubicazione dei Casali Medioevali del territorio della Chiesa di Monreale”, in Sicilia Archeologica, XIII (1971) e inoltre la ricognizione compiuta a Curbici dalla Sezione dei gruppi Archeologici d’Italia, conosciamo la storia di questo casale, distante tre chilometri da Camporeale. Le più antiche notizie diplomatiche provengono da un inventario del 1182 in cui sono enumerati i fondi “divise” donati al monastero e alla chiesa di Monreale dal re Guglielmo II (1166-89). Si parla di Corubnis superiore attraversata dalla strada che portava a Kalatrasi e Kalataphimi; e Corubnis inferioris attraversato dalla strada per Kalatrasi e Mazarie. I corsi d’acqua erano flumen Rahaluta e Corubnis. La superficie coltivata era di 1000 salme. Nel 1182 vi erano quindi due “divise” ma un solo casale corrispondente all’odierna Curbici. L’ultimo documento che parla di Curbici è del 1283 della chiesa di Monreale che dava in gabella il casale per due onze l’anno a Guglielmo Carbonito, giudice a Palermo. Si presume che verso la fine del XIV secolo sia stato completamente abbandonato. La posizione geografica della località posta in una conca, circondata da colline, senza una apparente struttura difensiva e la confluenza delle strade che l’intersecano, lasciano supporre, secondo F. D’Angelo, che fosse un luogo di sosta e cioè un “rahal”, ma il toponimo “Corubnis” appartiene a un substrato più antico pre-arabo. “Case di Curbici” come ancora sono chiamate, sono costituite da un complesso di case abbastanza vasto, costruite con una tecnica muraria rurale, ma solida, e da una grotta scavata nella roccia. Le pareti segnate con una fila di gradini portano alla sommità  dove ci si introduce in un’altra grotta soprastante circolare che comunica con la grotta inferiore piccola e quadrata per mezzo di un foro nella parete di fondo.
Intorno alle case e alla grotta si sono trovati un blocco di materiale solidificato, ricco di vetro e un grumo ricco di silicati con una superficie vetrificata, provenienti forse da una fornace o camera di fusione. Sono stati inoltre recuperati alcuni frammenti di ceramica, un orlo di bacino decorato. Le ceramiche di epoca normanna e le maioliche di età sveva trovate nella grotta e nelle case diroccate appartengono ai secoli XI e XII. Ma i ritrovamenti di materiale per la produzione di oggetti d’artigianato pongono il problema dell’esistenza di un casale molto più antico e dell’esistenza di una fornace. Inoltre la presenza della grotta con le suppellettili trovate possono risalire all’epoca preistorica o a quella romano-bizantina. E’ presumibile, secondo le ricerche archeologiche, che alla fine del XIV secolo la presenza umana regredì. Un altro castello saraceno era Kalata Busamar, sito sul monte Busamar ( oggi Busambra, sopra Ficuzza), presso cui, secondo il Fazello e il cluverio, si trovava l’antica Macella, espugnata nella prima guerra punica. Nel secolo XII Kalata Busamar era una “divisa” del territorio della chiesa di Monreale. In tutto le “divise” erano 50, di cui 13 con il nome di Rahal, 12 con il nome di Musil e 6 con il nome di Kalata, il resto con altri nomi. Il territorio di Kalata Busamar confinava con quello delle “divise” di jato, Corilon, Kalatrasi, Vallone delle Canne, Rapitalà, Disisa, Kasale. Nel 1147 Kalata Busamar aveva il suo Kaid, o castellano. Nel 1178 fu  assoggettata dalla vicina Kalatrasi, la rocca più forte della zona fino al secolo XIV.
Nel 1176 Kalatrasi fu chiamata “municipium”, secondo l’uso romano.
Nel diploma del re Guglielmo è notato che anche Entella fu ceduta nel 1182 a Kalatrasi, abitata dai Musulmani. Così pure il casale do Rahalmin (Roccamena), di cui restano ruderi del castellaccio, spopolato fin dal 1306, secondo la testimonianza del Lello. La stessa sorte toccò a Corubi (Curbici), che era casale fino al 1311. Nel 1206 Kalatrasi aveva il suo Kaid. Il castello era abitato da un castellano detto “praefectus arcis”.
Nel 1550, si trovò una “aediculam testudinatam”, una cappelletta con un cadavere “cubitorum circiter viginti duorum”, di circa ventidue cubiti, il cui corpo “decem pedem circuitu metiebatur”: misurava dieci piedi. Si pensò a un gigante, o al vecchio Entello che era solito farsi il bagno nelle acque sulfuree di S. Lorenzo chiamate “balneum Haentellae”, bagno di Entello. Lo storico Amodei, del sec. XVI, parlò delle terre di Entella. Queste acque, note agli antichi, sono ricordate anche nel diploma del re Guglielmo. Il Mongitore scrisse: “Presso il ponte di Kalatrasi si trova un laghetto del circuito di otto canne (circa m. 16,50) con un altro più piccolo. L’acqua si chiama Bagno di S. Lorenzo, è sulfurea, calda (39 gradi) e serve per gli effetti di rogna”. Egli cita il Fazello, che così dice: “ Ad radices montis ubi et balnaee sunt ad diversas aegritudines accomodatissimae”. Il nome di S. Lorenzo gli fu dato dai cristiani, in occasione della venuta dei Normanni, perché vi fecero un’edicola dedicata a S. Lorenzo martire. Presso il ponte si trovano i ruderi di un mulino ad acqua che serviva, fino ad alcuni decenni fa, agli abitanti di Roccamena e Camporeale per macinare il frumento.
Il castello di Kalatrasi, che forniva di seta grezza  i telai di Palermo fino ai tempi della denominazione catalana, fu distrutto dal castello di Maranfusa. Si credeva che le rocche di Maranfusa, presso l’odierna Roccamena, fossero abitate da diavoli, e pare che per questo motivo il ponte di Kalatrasi, che costruirono sul fiume Belice, si chiamasse ponte del diavolo. Secondo la leggenda, fu costruito in una notte dal diavolo. Se si guarda indietro, mentre si attraversa, si è attrati da una fata cattiva e si cade nell’acqua. Fu chiamato così anche per le antiche e oscure leggende, tramandate sino ai nostri giorni intorno a questo ponte, che maestoso e imponente si staglia sulle limpide acque del corso fluviale. Si tratta di una struttura ad una luce, con una base di m. 5,8; formata da un ampio e ardito arco a sesto acuto. Di fattura arabo-normanna, il ponte è stato recentemente restaurato. La muratura forma il piano di calpestio a “schiena d’asino” che, dalla linea di colmo, in corrispondenza della chiave di volta dell’arco, declina con leggera pendenza da entrambe le parti. Da documenti, ancora oggi esistenti, risulta che è stato costruito nel 1160. Fu di proprietà reale. Il re Guglielmo nel 1162ceduto ai figli di Guglielmo di Malcovenant, vescovo di Mazara del Vallo nel 1176, lo cedette in giurisdizione spirituale alla Chiesa di Monreale.
Alla fine del XII secolo, la valle del Belice fu concessa dal re Guglielmo II alla Chiesa di Monreale. I monaci tentarono di convertire i Musulmani con la forza. I ribelli furono esiliati. Giato, ribellatesi al re Federico II, fu assediata e distrutta, e i suoi abitanti furono deportati a Lucera, in Puglia. Dal 1250 i villaggi furono abbandonati.
 



ORIGINI DI MAKELLA

 

Dove si trova Makella la città di cui parlano alcuni autori antichi e che l’atlante geografico De Agostini, in una carta di Roma imperiale, pone tra Jetas e Segesta?

Con il contributo di Baldo Todaro del Gruppo Archeologico di Palermo, cerchiamo di chiarire questo mistero. Come afferma il Todaro”Essendo giunte al Gruppo archeologico diverse segnalazioni di rinvenimenti archeologici nelle zone di Monte Pietroso e Valdibella si è ritenuto opportuno fare le dovute ricognizioni. Monte Pietroso alto mt 531 dista 4 Km da Camporeale. Il terreno risulta disseminato di frammenti di terracotta. Verso la cima del monte si notano frammenti di ceramica indigena a bande o incisa, simile a quella rinvenuta a Segesta e ritenuta Elima, di ceramica a vernice nera, nonché chiari segni di opere murarie. L’esame della zona archeologica rivela l’esistenza di un centro abitato, difeso da Nord a Sud da mura, delle quali restano evidenti tracce. Ai fianchi si osserva l’esistenza di due necropoli, dalle caratteristiche diverse. Nell’area del centro abitato sono tutt’ora visibili resti di edifici e muri di contenimento. Per quanto riguarda la necropoli: la prima, quasi distrutta dai lavori agricoli, mostra numerosi frammenti di grossi pithoi, di lastroni in pietra e terracotta, segno di sepolture in fosse terragne con decorazione a vernice nera a fascia. La seconda necropoli era costituita da fosse terragne molto ampie protette da muretti. La grande abbondanza di resti ossei indicherebbe una loro utilizzazione per deposizioni e incinerazioni multiple. I numerosi frammenti di ceramica raccolti sono del tipo attico, ionico e di imitazione. Si sono rinvenuti anche alcuni frammenti di bronzo e di ferro. In conclusione è possibile affermare l’esistenza di un centro abitato di una certa entità, in vita almeno dal VI al IV sec. a.C. Inoltre, anche in località Valdibella, le ricognizioni del Gruppo  Archeologico Palermitano hanno accertato l’esistenza di una zona caratterizzata da un notevole numero di frammenti di terracotta. La distanza tra Monte Pietroso e Valdibella è di circa 3Km in linea d’aria.

I cocci rinvenuti a Valdibella si riferiscono all’epoca romana, quasi certamente ad un periodo molto tardo. Di particolare interesse, altresì il rinvenimento di un lastrone in mosaico a tessere bianche e di alcuni frammenti di colonne che manifestano sicuramente la presenza di una antica cittadina poco distante da Segesta, dal Monte Bonifato, da Jato”.

Secondo la testimonianza di V. Amico, a Roma presso il campidoglio si trova, su una colonna rostrata (raffigurante i rostri o speroni delle navi cartaginesi distrutte nella I guerra punica), il nome di Macella espugnata dal console romano Caio Duilio. Il numismatico siciliano Filippo Paruta (1552-1626) trovò una moneta di rame, raffigurante da una parte una faccia giovanile, dall’altra un toro, con la scritta MAKELLINEON.

Lo storico F.M. Mirabella parla di una Makella posta tra Panormus e Segesta, ed espugnata dai consoli romani Caio Duilio e Gneo Pompeo.

Lo storico V. di Giovanni identifica Macellaro presso Camporeale (Giorn. Let. Accademia Gionia, IV, 1858).

Nel I° libro dello storico Polibio si legge: “I Romani, fatta una spedizione in Sicilia al comando di  Gneo Pompeo e Caio Duilio, liberarono gli Egestani già ridotti all’estremo dall’assedio dei Cartaginesi. Ritornando ad Egesta, invece di proseguire per Panormo, ove si trovavano i Cartaginesi, preferirono andare verso mezzogiorno e, incontrando la città di Makella, la espugnarono” (260°.C.).

Da altre fonti sappiamo che Makella, sorta verso il secolo VIII a.C., era di origine sicana, e fu fondata da uno dei tre popoli siciliani sorti nello stesso periodo.

La causa della guerra era il dominio sulla commercializzazione ed esportazione del frumento, materia strategica della Sicilia, attraverso il porto di Castellammare.

Nel 415 a.C. la colonia dorica di Selinunte era in guerra con la colonia di Segesta. Makella, secondo il Mistretta, partecipò a fianco di Selinunte contro Segesta, sua antica rivale. Questa chiese aiuto ad Atene, che mandò una grande flotta. Da principio tutto andò a favore di Atene e Segesta, ma poi, per l’intervento di Sparta nel 413, Atene venne sconfitta all’Assinoro.

Nello stesso anno Makella  sconfisse Segesta con l’aiuto di Selinunte nella pianura del re, davanti le mura.

Il Francipani aggiunge che, nella prima guerra punica, prima che Makella fosse espugnata dal console romano Caio Duilio, i Makellini trucidarono una guarnigione romana che tentava di entrare dal vallone di Curubri (Curbici).Parla anche di una dinastia di regnanti, fra cui Makè, e Makelloin, che verso il terzo secolo assoggettarono Segesta, aprendo la via verso il mare (Castellammare).

Con la prima guerra punica (264-241), il primo dei tre terribili conflitti, scoppiati tra Roma e Cartagine per il predominio del mare Mediterraneo, cominciò l’invasione romana della Sicilia. In quel sanguinoso conflitto, tra i più rovinosi della storia, morirono 100.000 soldati romani e siciliani, e 500 navi furono distrutte. La Sicilia fu, come disse l’oratore romano Cicerone, “la prima ad insegnare come è bello governare paesi stranieri”.


DA MAKELLA A MACELLARO
 
 La città di Makella, distrutta dalla guarnigione romana, fu ridotta a una masseria. A Valdibella, nel feudo Macellaro e nella zona di Macellarotto sorsero dei centri abitativi.
Donna Violante Ferrieri, moglie del vicerè don Simone di Ventimiglia (nobile famiglia feudale siciliana), nel 1619, trovandosi in disagiate condizioni economiche, per la crisi economica del baronaggio che dal sec. XVI in poi si dilatò in tutta l’isola, vendette al borghese Vincenzo Grattino 600 salme di Macellaro e Macellarotto.
I Gesuiti nel 1642 ricevettero in dono dal Grattino la proprietà del feudo  di Macellaro di 1373 salme, con l’obbligo di pagare metà dei frutti fino alla morte del donatore, avvenuta nel 1654.
L’ordine religioso della Compagnia di Gesù, composto da sacerdoti e da fratelli laici e fondato nel 1541 dallo spagnolo S. Ignazio di Lojola, fu presente con le sue molte opere, fin dall’inizio della sua fondazione, in diverse città della Sicilia. Il primo collegio, per richiesta dei governatori locali, fu aperto a Messina nel 1548 e dopo due anni fu aperto un altro importante collegio a Palermo.
 S. Ignazio, in un primo tempo, aveva stabilito che i suoi seguaci dovessero vivere esclusivamente di elemosina, perché la povertà doveva essere il distintivo del soldato di Cristo. Ma ben presto il compito preminente della Compagnia di Gesù divenne l’insegnamento. La svolta in questo senso, secondo il Renda, venne dalla richiesta della città di Messina. Da allora sorsero, per richiesta di principi e governi, diversi collegi provvisti di donazioni di beni. Per salvare il voto di povertà, si stabilì che nelle case professe (collegi di formazione per i chierici), si dovesse vivere di elemosina. I donatori erano spesso legati da vincoli affettivi o di associazione con i Gesuiti. La loro proprietà era tra le più importanti della Compagnia di Gesù.
Nel 1767, quando furono espulsi, in tutta la Sicilia possedevano: 35 “domicilia”, 12 case di esercizi e altre congregazioni, 45.000 ettari di terra sotto la guida di 760 soci, di cui 333 sacerdoti, 176 scolastici e 251 coadiutori. Più che per la loro ricchezza ( inferiore a quella di alcune mense vescovili) attorno a cui si creò la favola del tesoro dei Gesuiti, rimasero famosi per la cura intensa che misero nel far fruttificare la terra e per la novità di gestione.
Oltre a detenere questa proprietà, i Gesuiti stipularono accordi con proprietari confinanti, affittando la proprietà di Perciata del marchese di Madonia, così pure la proprietà di Valdibella, il feudo di Curbici e Boccadorzo nella badia del Cancelliere, Giardinello, di proprietà dell’ Ospedale maggiore di Palermo, e Rapitalà, in parte di proprietà del marchese di Baucina. Ricevettero a censo le due parti del feudo Pernice, di cui la prima parte nel 1592 e la seconda nel 1598. Pagavano il censo  alla Curia dell’Arcivescovado di Monreale per le proprietà di Massariotta, Fargione, Zuccari, Grisì. Presero a censo anche il feudo di Azzolino, dei fratelli Ignazio e Pasquale Azzolino, e le masserie di Stretto e Fraccia. In totale le terre possedute o avute in censo o in affitto dai Gesuiti erano 1.801 salme nel 1716.
I Gesuiti portarono un grande incremento nella produzione, facendola passare da onze 6.106, quando la ricevettero dal Grattino, a onze 22.381 nel 1764. Nel giro di pochi anni riuscirono a mutare radicalmente la realtà di quel feudo, trasformandolo in una vera e propria azienda di tipo capitalistico moderno di 3.000 ettari, dove “i mezzi a disposizione del vertice tecnico che sovrintendeva all’attività produttiva ( produzione, immagazzinamento e commercializzazione) erano tali da soddisfare tutti i bisogni aziendali”.
Il lavoro era diretto da sette fratelli  laici gesuiti mandati dal collegio Romano. L’organizzazione era autosufficiente, provvedendo a trasportare ai caricatori regi la produzione, con i muli che erano indispensabili per il trasporto delle merci. I muli servivano, secondo la testimonianza dei Gesuiti, anche per l’evangelizzazione nello spostamento da un luogo all’altro.
Centro pulsante di questa complessa ed efficiente macchina produttiva era il Baglio, centro dell’attuale Camporeale. Questo gigantesco edificio, costituito da diversi magazzini, stalle, locali per la residenza, laboratori artigianali e numerosi  cortili, è ancora esistente, malgrado l’abbandono in cui è stato lasciato e soprattutto le demolizioni e le trasformazioni operate. Per fortuna il castello è stato salvato e recentemente anche restaurato. La novità della conduzione agricola, iniziata dai Gesuiti consisteva: 1) nell’uso di mano d’opera salariata; 2) nella differenziazione delle coperture per l’autosufficienza dell’azienda nei rapporti di lavoro. Inoltre i sette fratelli laici gesuiti dirigevano l’azienda in maniera diretta o in economia, senza intermediari o gabelloti: fatto eccezionale per quei tempi.
Dovendo conciliare i doveri religiosi con le necessità derivanti dalla gestione dei beni materiali, furono redatte dai Gesuiti norme minuziose riguardanti l’amministrazione, la contabilità, la stipula dei contratti, la coltivazione più redditizia della terra. In Sicilia, per opera di P. Ludovico Flori, secondo il Renda, fu pubblicato il trattato del modo di tenere il libro doppio domestico che anticipò il libro a partita doppia. La sana amministrazione dei beni dei Collegi rientrava nella loro vocazione. La Sicilia era granaio dell’Europa. I Gesuiti impararono l’arte dell’agricoltura. Come proprietari, produttori e mercanti disponevano di cultura, amicizie e di una grande organizzazione. Svilupparono le loro doti di operatori economici e ottimi amministratori. La differenza con i dirigenti d’impresa consisteva nel fatto che l’uso dei beni e il loro ricavato dovevano servire per il bene della comunità religiosa, per l’attività evangelizzatrice e sociale a vantaggio dei più bisognosi. Venivano reclutati, nei loro viaggi missionari, i giovani poveri più dotati, per l’istruzione gratuita nei loro Collegi.
Il loro lavoro diventava una missione. Ammirevoli erano i loro rapporti con gli operai. I lavoratori erano divisi in tre categorie, secondo la durata del contratto: 1) gli annalori, che erano corpo stabile dell’azienda, 2) i misalori, che erano ingaggiati per un mese, 3) i Jurnateri, ingaggiati a giornata, nelle piazze dei paesi vicini, secondo il bisogno del momento.
Questi operai lavorano spesso a “staglio”, per rendere di più. La retribuzione mensile nel 1764 era di 16 onze l’anno, la minima era di 4. Nel 1764 c’erano a Macellaro più di 100 annalori e misalori stabili, che abitavano probabilmente in casette fatte costruire nella Via Corpora, addossate allea costruzione del baglio, di cui si vedono ancora i ruderi. Di fronte al baglio abitavano i guardiani, nel quartiere chiamato, anche oggi, zona dei Gesuiti. Secondo le ricerche del Renda, conosciamo l’organizzazione dei lavoratori e la loro paga annuale.
Questa, oltre in denaro e in natura, consisteva in “carnaggi” (pane, vino, carne) ed era così ripartita: 1 curatolo di aratri riscuoteva onze 12; 1 sottocuratolo, onze 12; 1 curatolo di muli, onze 12; 1 sciccaro, onze 3 e tarì 15; 1 curatolo di pecore, onze 3; 2 pecorai, onze 6 e tarì 15; i carrettiere, onze 8; 1 ferraio, onze 9 e terì 10; 1 magazziniere, onze 10; 1 garzone di magazzeno, onze 3 e tarì 15; 1 panettiere, onze 8; 3 soverchinari di muli, onze 8; 6 bordonai, onze 9(F. Renda, p 109).
L’organizzazione dei Gesuiti era molto avanzata e attrezzata per quei tempi. Ma la loro enorme ricchezza denominata il  “tesoro dei Gesuiti”, il loro grande potere politico, l’influenza esercitata sui nobili e sulla classe colta suscitarono la gelosia e l’invidia. Si aggiunsero motivi di natura politica, economica, ideologica che causarono la soppressione dei Gesuiti in Europa e nel Sud America, dove avevano realizzato una esperienza di vita comunitaria e sociale straordinaria, con le tribù più povere ed emarginate.
Regnavano allora in Sicilia i Borboni. Il ramo spagnolo di questa dinastia reale, di origine francese (Bourbon), iniziò nel 1700 con Filippo V, re di Spagna e Sicilia. Nel 1734 fu proclamato re delle Due Sicilie Don Carlos dei Borboni. Scelse come suo segretario di stato Bernardo Tanucci, professore di diritto dell’università di Pisa. La Sicilia, che contava 1.500.000 abitanti, era molto disastrata economicamente e socialmente, a causa delle varie dominazioni. Il re ricevette la corona regale dal Parlamento  siciliano nella cattedrale di Palermo e, pur risiedendo  a Napoli, si impegnò a garantire alla Sicilia l’autonomia e il rispetto delle sue antiche istituzioni. Nel 1759, divenuto re di spagna con il titolo di Carlo III, nominò come suo successore il figlio novenne, Ferdinando, sotto la tutela del ministro Tanucci e di un Consiglio di reggenza. La guida del regno ricadde sul Tanucci che spese le sue grandi capacità di statista quasi esclusivamente nei confronti della Chiesa. Decise di incamerare tutti i beni ecclesiastici alla morte dei titolari, di ridurre il numero degli ecclesiastici al 5%, di vietare ai figli unici di farsi preti, di non avere ogni famiglia più di un figlio religioso. La sua politica anticlericale raggiunse il culmine nel 1767; seguendo infatti l’esempio delle altre nazioni europee, espulse dal regno i Gesuiti, emanando questo editto: “Noi, il Re, facendo uso della suprema indipendente podestà che riconosciamo immediatamente da Dio, unita dalla sua potenza, inseparabilmente alla nostra sovranità, per il governo e il regolamento dei nostri sudditi, vogliamo che la Compagnia, detta di Gesù, sia sempre abolita ed esclusa dai nostri regni delle Due Sicilie”. L’editto di espulsione dei Gesuiti, emanato dal re Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia, nel 1767, ordinava a tutti i Gesuiti sacerdoti di uscire dal Regno delle Due Sicilie e imponeva ai fratelli laici di abbandonare l’abito, se volevano rimanere in Sicilia. Questa espulsione e la confisca dei beni furono un fatto di portata mondiale, che ebbe negative ripercussioni soprattutto nel settore delle scuole, affidate principalmente ai Gesuiti. I loro beni, secondo l’intenzione di Bernardo Tanucci, ispiratore di questa legge eversiva, dovevano servire a “ quell’uso che stimiamo più utile e conveniente al bene pubblico”. Il 23 marzo 1768 il re Ferdinando disponeva che i beni dei Gesuiti fossero dati in enfiteusi ai contadini, mentre alcuni nobili volevano che ritornassero ai loro eredi.
Prevalse la tesi del Tanucci, che sosteneva di distribuirli a censo. Si stabilirono allora degli ufficiali governativi per l’inventario dei beni sequestrati. A Macellaro fu mandato Giuseppe Pinnavaria, che inventariò ogni cosa: “ mobili, suppellettili, arredi sacri, animali”. Così si trovarono nel primo baglio dopo il grande portone fatto costruire dai Gesuiti nel 1691: 99 mule, 18 somari, chiusi in una stalla, in un magazzino 13 carrozze di buoi e attrezzi vari. Nel secondo baglio  dopo la porta grande, chiusa con catenaccio, c’erano: una stanza con 100 quartare di creta; una stanza per il ferraro, con gli attrezzi, 100 barili di vino in un magazzino e poi giumente  marcate dal collegio romano e altro; una stanza per il mastro d’ascia, con strumenti di lavoro; un magazzino enorme detto della Madonna, sotto l’arco del secondo baglio, con 535 salme di frumento, e altri magazzini pieni. E poi 8 stanze con letti, materassi di lana, sedie di cuoio, genuflessori, armadi, carte francesi, quadri, un refettorio, una stanza sopra la chiesa, un “arbitrio” per la pasta. La mandria comprendeva: 655 pecore di latte, 189 agnelli, 10 capre, 2 mule, 78 mucche, 202 buoi, 91 vitellacci, 8 tori, 7 mule, 5 giumente, 1 puledro, che si trovavano forse nella mandria di fronte al baglio, nella zona dell’attuale via Rizzuto.
Tutti questi beni esprimono un livello di vita elevato.
I Gesuiti vivevano in maniera sobria, come si può notare dalle relazioni trovate sul loro vitto, abbigliamento e abitazione. La proprietà serviva per dotare i collegi per la formazione e l’istruzione degli studenti. Anche il Collegio Massimo di Palermo veniva sostenuto dal feudo Perciata. Molto improbabile, inoltre, è la diceria del macello posseduto dai Gesuiti, perché era proibito che  un figlio di macellaio  potesse diventare sacerdote. Si costituì una giunta speciale gesuitica, con il compito della gestione economica dell’attività e del censimento di buona parte del terreno confiscato. Un terzo del feudo di Macellaro fu concesso a 333 contadini, provenienti dai comuni di Montelepre, Poggioreale, Santa Margherita, Salaparuta, Gibellina. Così pure Sparacia, posseduta dal Collegio Massimo di Palermo, fu attribuita in enfiteusi a 236 contadini. Ai Gesuiti succedono i tecnici preposti alla giunta speciale. Dopo 125 anni, dal 1642 al 1767, di gestione diretta con operai salariati, ritorna la figura del grosso gabelloto: don Giuseppe Greco Carlino, nominato da Don Giovan Battista Cammuca, che riceve come affittuario le 1300 salme di terreno confiscato. Il motivo di togliere la terra ai Gesuiti era stato quello di migliorare lo stato di arretratezza e miseria della popolazione e dare la possibilità di censire le terre dei Gesuiti, a piccole porzioni, agli uomini di campagna, secondo il progetto della fisiocrazia, che era la dottrina economica allora vigente.
Ma lo scopo principale fu la soppressione dei loro beni. Vedendo poi come erano trattati male gli operai dopo l’espulsione dei Gesuiti, si diffusero delle calunnie sul loro cattivo comportamento, sullo sfruttamento degli operai, sulle loro enormi ricchezze e tesori nascosti. Ancora si parla, presso gli anziani di Camporeale, di vomeri d’oro usati dai Gesuiti e di un tesoro nascosto.
Macellaro fu dato in affitto a G. Battista Cammuca per 3.901 onze l’anno.
Il risultato economico e sociale non corrispose all’impegno politico posto dal Governo, tanto che 28.000 ettari di terreno furono assegnati a 3.000 contadini poveri. Questo fu un fatto economico e politico straordinario. Le assegnazioni dei capi di bestiame e delle sementi non furono però eque: basti citare il fatto (uno fra tanti) che nel 1768-69 a Macellaro, per la cultura di 455 salme furono date 354 salme di frumento, che erano sufficienti per la semina. Avvenne allora che gli assegnatari gravati da alti canoni, privi di mezzi di lavoro e strozzati da prestiti usurari, si trovarono in gravi difficoltà.
La logica conclusione fu l’impossibilità di pagare i canoni. Inoltre si verificò la fuga dalla terra e il rifiuto delle terre assegnate. Nel 1774, fatta l’assegnazione di 1.373 salme di terra a 333 enfiteuti, avvenne che dopo due anni furono abbandonate 646 salme e date quindi in affitto. A questo punto l’azienda gesuitica, l’organo speciale istituito dopo la soppressione per annotare i beni degli espulsi, obbligò i contadini rimasti a lasciare libero tutto il feudo. Ma quei pochi che erano rimasti a lavorare la terra non vollero abbandonarla, e nel 1777, il 31 luglio, un centinaio di enfiteuti andarono a Palermo, per protestare contro l’ordine di lasciare la terra. Dopo altre proteste si arrivò ad un accordo, secondo il quale essi potevano restare, lavorando solo nelle parti esterne del feudo, e pagando la relativa quota.
Il proposito di Tanucci di distribuire ai contadini i beni confiscati non poté realizzarsi, perché fu fatto dimettere da forze reazionarie. Lo sostituì Giuseppe Beccadelli, marchese di Sambuca. Questi l’ agosto 1778 fece sopprimere dal Governo napoletano l’azienda gesuitica, e tutti i beni dei Gesuiti furono incamerati dal patrimonio reale, mentre le chiese e i collegi venivano dati ai vescovi.
Il 16 ottobre 1778 venivano posti in vendita i beni edilizi e fondiari, annullando tutte le concessioni fatte precedentemente. Successero agitazioni e proteste da parte dei coltivatori dei feudi, per cui non tutti i beni gesuitici furono incamerati. Il marchese di Sambuca, che già aveva ottenuto in dono la tenuta di Rinazzo, acquistò il feudo Macellaro e, grazie al decreto reale, si liberò di tutti gli enfiteuti dei due feudi. Ecco come ciò avvenne, secondo il Villabianca: “ sul cominciare del 1779 venne conclusa la vendizione o meglio può dirsi  la concessione reale, fatta dalla maestà nostra il re Ferdinando Borbone a Giuseppe Beccadelli di Bologna e Gravina, marchese della Sambuca, cavaliere di San Gennaro e suo consigliere e primo ministro e segretario di Stato, di sette grossi feudi degli espulsi Gesuiti, posti in Val di Mazara, chiamati: del Macellaro, la Signora, Sparacia, Mortilli, Pietra Longa, Li Dammusi, Grisì, nel prezzo di onze ottanta mila, da pagarglieli parte in contanti e parte in diverse rate. Consta tutto il compreso delle tenute dei terreni degli accennati feudi e masserie della quantità di oltre tre mila salme”. Si ebbe così il CLII atto di liberazione dei cinque territori di Macellaro, Sparacia, Pietra Longa, Dammusi e Signora in persona di Don Gaetano Morales per la somma di onze 88.930, il 24 aprile 1779. Il re confermò la concessione sovrana su questi territori, con questo dispaccio del 22 maggio 1779: “ In considerazione delli distinti servizi del principe di Camporeale e del marchese della Sambuca, di lui figlio primogenito, deferendo alle istanze avanzategli dal detto marchese, è venuto ad accordargli i cinque territori che ha comprato dall’azienda gesuitica, denominati del Macellaro, Pietra Longa, Sparacia Dammusi, Signora, Mortilli, e sopra la loro estensione ed aggregato in perpetuo e in infinito, per sé, suoi eredi e successori, anche estranei, e per quelle persone che in avvenire possederanno detti terrotori, secondo la legge, che gli imporrà: il mero e misto impero con l’alta giurisdizione, come ne gode nella sua terra della Sambuca suo feudo e con tutte quelle facoltà, prerogative, giurisdizione e preminenze che in quelle si trovano espressate e concesse, come altresì di potere egli fare delle popolazioni o sieno università in ciascuno territorio degli accennati a di lui arbitro, sempre e quando stimerà di farne l’uso, sempre che non ve ne siano altri distanti di tre miglia siciliane già erette in università”.
Quali le origini dei Beccadelli? I Beccadelli, nobile famiglia bolognese, nel 1216 facevano parte del Consiglio generale di Bologna. Nel 1304 vennero in Sicilia. Antonio Beccadelli, detto il Panormita, fu umanista e poeta famoso e, col fratello Lodovico, godette i favori del re di Sicilia. Lodovico ( Bologna 1501-1572), arcivescovo di Ragusa (dal 1555), partecipò al Concilio di Trento. Nel 1664, con diploma del 16 settembre, l’imperatore Filippo IV concesse il titolo di principe di Camporeale ( paese spagnolo vicino Madrid, di proprietà dell’imperatore) a petro Beccadelli e Grimaldi, marchese di Altavilla. Questi sposò Antonina Ventimiglia e Bardi-Mastrantonio da cui ricevette il marchesato di Sanbuca. Domenico Beccadelli (1826-1863), uomo politico e “pari” di sicilia (alta onorificienza ), votò la decadenza dei Borboni. Nel 1848 sposò a Napoli l’inglese Laura Acton, che, rimasta vedova, sposò il 4 settembre 1864 Marco Minghetti, presidente del Consiglio. Ebbe due figli: Pietro Paolo (1852-1918) sindaco di Palermo e senatore, e Maria, moglie del principe di Bulow.

DA MACELLARO A CAMPOREALE
 
Giuseppe Beccadelli, Marchese di Sambuca, ottenuta la concessione sovrana “ del mero e misto impero” sui territori acquistati, diede il nome di Camporeale, perché Principe di Camporeale, al paese fatto costruire nel feudo di Macellaro, mentre denominò con il nome di S. Giuseppe dei Mortilli il paese fatto costruire nei suoi feudi di Signora, Dammusi, Mortilli, in onore del suo protettore S. Giuseppe. Il Principe di Camporeale, con nulla osta del 2 febbraio 1786 fu autorizzato dal sovrano a costituire in comuni i centri abitativi di Camporeale e S. Giuseppe. Assegnò, per uso comune, attorno all’abitato, 30 salme del feudo Mortilli al comune di San Giuseppe  e 30 salme del feudo Macellaro al comune di Camporeale. Impose inoltre un sopra canone di tre tarì per ogni suolo di casa.
Inoltre il principe fece costruire il paese di Roccamena, così detto per le rocche che sovrastano il paese (già casale arabo, chiamato “ Racalmei”, diventò comune indipendente da Corleone nel 1847, per decreto di re Ferdinando II). Diede in enfiteusi il terreno di Roccamena ad abitanti provenienti da paesi vicini. Anche il feudo di Grisì, ex proprietà dei Gesuiti, fu dato dal principe in enfiteusi ai tre fratelli Di Bella, di Montelepre, che costruirono le prime case del paese nel “Bagghiu”. Per dare inizio nel 1779 ai due paesi di Camporeale e S. Giuseppe dei Mortilli ( che poi diventerà S. Giuseppe Jato e a causa di una frana nel 1838 si divise in due, dando origine al paese di San Cipirello) e per poter coltivare i fertili e vastissimi terreni che si estendevano da Portella della Paglia fino a Pietrlonga, fece emanare un bando nelle zone del marchesato di Sambuca e zone circostanti. Tutte le persone che avessero accettato di venire a lavorare nei due paesi suddetti avrebbero ottenuto immunità, protezione, lavoro, con un terreno da coltivare ( gravato da un piccolo censo), uno spazio per costruirvi un’abitazione, nonché un premio di nuzialità di due onze.
 Come si può notare dalla discendenza dei nostri antenati, aderirono a quell’invito molti dei paesi di Santa Margherita, Gibellina, Poggioreale, Alcamo, Partanna ,Montallegro, Contessa Entellina, Corleone, Chiusa Sclafani, Giuliana, Bisacquino, Sambuca, Cattolica Eraclea, Caltabellotta, Ribera e altri paesi vicini, principalmente della provincia di Agrigento, a cui si aggiunsero ben presto molti altri delle province di Palermo e Trapani. Facendo la statistica delle origini delle prime famiglie, a partire dell’inizio fino al 1820, si nota che 172 famiglie provengono da Poggioreale, 164 da Santa Margherita, 150 da Gibellina, 64 da Alcamo e poi in minor numero da altri paesi. Con questa gente raccogliticcia, proveniente da diverse parti, con abitudini e tradizioni differenti, con un passato per alcuni poco pulito, e per altri di miseria, con conti pendenti verso la giustizia o verso i padroni, nacquero Camporeale e S. Giuseppe Jato. Per cinque secoli circa, prima della fondazione di Camporeale e S. Giuseppe Jato, dal 1250 al 1650, non esisteva nessun centro urbano nelle parti di Camporeale odierna. Solo nella contrada  Macellarotto si trovarono tracce di un piccolo centro abitativo di campagna che è esistito dal XIV al XVII secolo d.C. e che forse costituiva un nucleo abitativo, anteriore a Camporeale. Gli antenati di Camporeale costruirono le loro misere casette sotto la collina, attorno al castello costruito dalla famiglia dei Ventimiglia probabilmente verso il secolo XVI e poi ceduto ai Gesuiti.
Concludiamo questa breve storia del comune di Camporeale con quanto ha scritto l’architetto Calogero Zuppardo, in occasione del terzo “Meeting di primavera”, svoltosi a Camporeale  dal 3 al 18 maggio 1986:
Cercando il passato del nostro paese nella memoria degli anziani, abbiamo trovato la storia di un tesoro nascosto”.
Una volta nel Baglio abitavano i Gesuiti. Essi erano tanto ricchi da arare la terra con vomeri d’oro. Allora il  re, invidioso, li cacciò, ma non poté sottrarre il tesoro, perché essi riuscirono a sotterrarlo e in parte lo portarono via, nascondendolo nelle canne che servivano da bastoni di viaggio. Da quel giorno ogni buca è stata scavata e ogni solco è stato tracciato, con la speranza di trovare il tesoro nascosto.
Incuriositi da tale racconto, abbiamo sfogliato documenti d’archivio, consultato libri, raccolto dati, rinvenuto reperti, studiato topografie e alla fine ritrovato il prezioso tesoro.
Quando nel 1642 alcuni fratelli della Compagnia di Gesù giunsero nel feudo di Macellaro, vi trovarono un possedimento incolto ed abbandonato, ma in pochi anni lo trasformarono in una masseria razionale e produttiva che sempre più allargava i propri confini e si arricchiva di mezzi per aumentare la produzione.
Centro dell’azienda era il Baglio, gigantesco edificio con locali per la residenza, laboratori artigianali, stalle, magazzini e cortili per la vita comunitaria.
Ma la classe nobiliare non poté tollerare il confronto e strappò al re Ferdinando un editto col quale nel novembre 1767 i Gesuiti vennero espulsi.
Così il principe Giuseppe Beccadelli si approfittò del feudo Macellaro e nel 1779 vi fondò Camporeale. E il baglio continuò a dominare, non più per difendere la comunità, ma per difendere da essa il potere baronale che  finì per rappresentare.
A Macellaro, come nelle “reduciones” del Paraguay, i Gesuiti operavano nel rispetto delle culture in cui la loro presenza si inseriva. Mandavano lontano gran parte dei prodotti della masseria, pagavano buoni salari ad artigiani e contadini, ospitavano poveri e viandanti che quando ripartivano ricevevano un viatico in natura e denaro.
Non producevano per arricchirsi ma per sostenere nel mondo un ideale e progredivano perché avevano alle spalle una grande “compagnia”.
“Era questo il loro tesoro”.
 
 

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